Si direbbe che qualcosa stia slittando sotto i nostri piedi: non solo nuovi dispositivi, ma un modo diverso di cercare, guardare, ascoltare. A tratti risulta entusiasmante, altre volte troppo veloce. La rete, i visori, l’AI, chiamatela come volete, hanno iniziato a mescolare palcoscenico e schermo, platea e divano.
Non tutto cambia all’istante, ma la sensazione è che la fruizione culturale si stia spostando verso percorsi più personali, più a portata di mano e, quando funziona, anche più coinvolgenti. Inoltre, non è solo questione di gadget: si modifica il rapporto con l’arte, la musica, il cinema e anche con il modo in cui condividiamo un evento. Forse si tratta di una rivoluzione; oppure, più modestamente, di un lungo aggiustamento.
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Visori VR, filtri AR, quel miscuglio che oggi chiamiamo XR sono strumenti diversi che aprono porte un tempo chiuse. Oggi si può assistere a un concerto dal salotto e avere la percezione di essere quasi schiacciati contro la transenna. Musei lontani diventano visitabili con una fedeltà che, in certe stanze, sorprende; in altre convince meno. Dopo la pandemia molti spettacoli dal vivo sono stati ripensati non tanto per sostituire il teatro o l’arena, quanto per offrire vie parallele quando non è possibile essere presenti.
Anche realtà come il casino
Gli algoritmi, quelli dei grandi streaming, tipo Netflix o Spotify, ma non solo, provano a capire cosa possa piacere agli utenti. Ottengono buoni risultati finché ci si muove in certi binari. Due utenti, stessa piattaforma, feed completamente diversi: questa situazione è plausibile. La personalizzazione va oltre il suggerire; ormai comincia a generare.
Sono disponibili brani musicali composti istantaneamente e personaggi di videogiochi che, almeno in teoria, apprendono dal comportamento degli utenti. Tuttavia, l’AI è brava a prevedere abitudini, meno a riconoscere scelte fuori schema. Molti per questo parlano di bolla di raccomandazioni. Il sistema genera spesso vantaggi ma non rappresenta la soluzione definitiva, e forse è giusto così.
Produrre contenuti in digitale, con set virtuali e asset in cloud, contribuisce a ridurre spostamenti, materiali, sprechi. Non elimina l’impronta ambientale, ma la abbassa, specialmente quando vengono evitati viaggi e allestimenti colossali. Le tecniche di produzione virtuale permettono di passare da Islanda a Sahara senza muovere la troupe di due continenti: vantaggio economico e, in molti casi, ambientale. Anche qui, tuttavia, non tutto si dimostra impeccabile: il calcolo energetico dei data center, l’hardware da aggiornare, le catene di fornitura sono aspetti che pesano e che dovrebbero essere considerati prima di proclamare una vittoria. L’idea, comunque, è chiara: fare di più con meno, senza sacrificare troppo la qualità.
Basta un telefono e una connessione decente per partecipare. Eventi, visite guidate aumentate, dirette che attraversano fusi orari senza bisogno di passaporto. Il gaming ha cucito comunità gigantesche, non solo per giocare: si comunica, si crea, si organizzano tornei improvvisati.
Le app per la cultura aggiungono strati informativi a monumenti e città, talvolta invadenti, altre volte illuminanti. “Universale” resta però un termine impegnativo: c’è chi non ha accesso o non ha quello adeguato. Tuttavia, la direzione è chiara e l’effetto di democratizzazione, almeno in parte, è visibile.
In futuro il confine fra fisico e digitale tenderà a diventare più poroso: esperienze ibride, biglietti che sbloccano contenuti extra, concerti che sono sia luogo sia stream. La tecnologia non rimpiazza del tutto il vecchio intrattenimento: lo affianca, lo spinge e a volte lo mette in discussione.
Nei prossimi anni potrebbero emergere format ancora sconosciuti, guidati da sperimentazioni rapide e da un pubblico che si annoia facilmente. L’unica previsione sensata è che servirà elasticità: per chi crea, per chi distribuisce e per chi guarda, con la libertà di cambiare idea a metà spettacolo o di spegnere tutto e tornare in sala.
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